Anche il brano evangelico di oggi, come quello della scorsa domenica, è imperniato sulla
conversione-penitenza, tematica che accomuna le celebrazioni liturgiche quaresimali dell’anno C nel rito romano.
La pericope odierna si compone di due parti: una
introduzione-premessa e una parabola. La prima ci fa sapere che tra i
più assidui ascoltatori di Gesù c’erano pubblicani e peccatori (che
notoriamente non seguivano le regole della Torah), con i quali il rabbi
di Galilea si mostrava accogliente e paziente. Tutto ciò è assai
malvisto da una seconda categoria che emerge all’orizzonte evangelico:
scribi e farisei che, condizionati dai loro pregiudizi, “mormorano”,
cioè criticano con forte accento negativo di protesta il comportamento
di Gesù. Quest’ultimo non rimprovera apertamente i notabili ebrei, ma
espone una parabola, cioè un racconto fittizio, che presenta stringenti analogie con la situazione vissuta dai soggetti summenzionati.
Nel testo si accampano a forti tinte tre
personaggi: il padre, il figlio minore - dissoluto, e il primogenito –
fedele e laborioso.
Il figlio minore, sentendosi allo stretto in
famiglia, chiede al padre la sua parte di eredità (con il genitore in
vita, gli spettava un terzo dei beni, il doppio andava al figlio
maggiore) e parte per una meta lontana, credendo di raggiungere
l’agognata libertà. Ma conduce una vita disordinata, sperpera i soldi e
si riduce a fare il guardiano di porci, patendo la fame. Così, toccato
“il fondo” come si suol dire, rientra in sé e decide di tornare a casa . E’ convinto di aver perso l’amore del genitore e di doverselo meritare di nuovo. MA IL PADRE NON HA MAI CESSATO DI AMARLO.
Quando il figlio gli chiede perdono, non lo lascia neppure parlare: il
suo amore precede il pentimento e la conversione; gli offre con gioia
veste, anello, calzari, “segni” dell’essere figlio e vuole che si faccia
festa per il ritorno del giovane, il quale, travolto
da questa misericordia sovrabbondante, finalmente capisce che il padre
non solo l’ha sempre atteso, ma l’ha sempre amato, anche quando lui lo
aveva dimenticato, o forse odiato. E’ evidente che il figlio
minore rappresenta quei pubblicani e peccatori che abbiamo incontrato
nel v.1 e la sollecitudine del padre manifesta la sollecitudine di Dio
Padre rivelata da Gesù.
Nel proseguimento della parabola troviamo il 3°
personaggio, il figlio maggiore, un giovane fedele rimasto sempre in
casa. “In tal modo il parabolista ha abilmente messo in scena anche i
“mormoratori” scribi e farisei (cfr. v.2) rappresentandoli nel figlio
maggiore. Anziché godere della gioia del padre, questi ne prova
irritazione: esattamente come gli scribi e i farisei che mormoravano
contro Gesù. Costoro, i “giusti”, sempre fedeli e sempre a servizio,
sono sì dei credenti, ma non conoscono Dio.
Il figlio maggiore non riesce a vedere la questione
con gli occhi del padre………La gioiosa accoglienza riservata al fratello
minore (che egli non riconosce come “fratello”) suscita in lui l’amara
sensazione che la sua fatica sia del tutto sprecata……..si risente nei
confronti del padre e non vuole entrare in casa; il padre non si adira
neppure con lui, ma esce, gli va incontro, lo prega e lo chiama “figlio
mio”. IL PADRE AMA ENTRAMBI I FIGLI.
Ascolta le ragioni del figlio maggiore e le confuta: è un dialogo su
cui il parabolista indugia, forse per ricordarci che talvolta la
conversione del giusto è più difficile di quella del peccatore.” (B.
Maggioni, Le parabole evangeliche, p.225)
La parabola odierna viene chiamata normalmente “del
figliuol prodigo”, ma a ben vedere è piuttosto la “parabola del padre
misericordioso”, anzi “la parabola di un padre prodigo d’amore” ed è
forse la pagina più nota del vangelo di Luca, certamente una delle più
celebri; è una pagina addirittura commovente, una grande pagina
evangelica, che non a caso i Padri della Chiesa definivano “il Vangelo
nel Vangelo”. Infatti, se il vangelo è Buona Notizia, questa parabola è
davvero l’apice della Rivelazione cristiana: l’amore di Dio non ha
confini; egli ci ama non solo se siamo buoni, ma anche e soprattutto
quando siamo cattivi: “mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi!” (Rom.5,8)
Il testo è dunque una sorta di catechesi sul sacramento del perdono, è
una pagina di rara bellezza letteraria e di ancor più rara densità
teologica. Quella in esame è anche la parabola forse più articolata e
ricca di tratti descrittivi, ciascuno con un preciso significato.
Il centro della pericope è costituito certamente
dalla straordinaria figura del Padre, un esempio e modello di amore
paterno difficilmente eguagliabile.
Ogni parabola ha poi la cosiddetta “punta”, cioè da
quella parte su cui, come accade per un quadro, è soprattutto attirata
l’attenzione dell’ascoltatore; nel caso presente la “punta” sta nel modo
in cui il padre si pone di fronte ai due figli e quindi nell’invito a
non opporsi alla sua straordinaria misericordia, perchè Gesù non è “venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”. (Mc.2,17).
Io credo che il messaggio principale che emerge dal
testo lucano sia proprio questo: fugare nel modo più assoluto qualsiasi
forma di paura o addirittura terrore di fronte a Dio, visto come
Giudice inesorabile che, alla fine della vita, ci farà pagare tutti i
nostri conti; e prendere atto che, in quel momento, noi ci troveremo al
contrario di fronte ad un Padre dolcissimo, pieno di comprensione e di
misericordia, felice – Lui ! – del nostro pentimento e del nostro
ritorno, anche nel caso che i nostri peccati siano stati i più ignobili,
vergognosi e incalliti del mondo. A questo proposito mi vengono in mente la parole di S. Teresina del Bambin Gesù (in “Storia di un’anima”): “Sento che, se anche avessi commesso tutti i crimini possibili, la moltitudine di offese diverrebbe come una goccia d'acqua gettata in un braciere ardente!”
Attualizzando il testo di Luca per il nostro tempo,
possiamo ricordare il ragionamento di tanti: “Ecco, io fin da piccolo
sono stato osservante e praticante. Quello lì, che ha fatto i suoi
comodi per tutta la vita, si pente all’ultimo momento, viene perdonato
ed ha la stessa mia ricompensa: il Paradiso. E’ giusto questo?”. Certo, è
giusto nella logica di Dio, diversa dalla nostra, ma uguale a quella di
un padre o di una madre, che non aspettano altro che il ritorno del
figlio traviato; e quando questi si ravvede, gioiscono infinitamente,
facendo gran festa e mettendolo a parte dei loro beni tanto quanto gli
altri figli che magari vi hanno contribuito con il loro lavoro.
Non può essere che gretto e meschino il
ragionamento di cui sopra, perché c’è comunque una bella differenza tra
l’essere in dialogo e comunione con Dio fin dall’inizio della propria
vita cosciente ed arrivarci all’ultimo momento: si perde molto
purtroppo!, e poi si corre il rischio di essere raggiunti dall’esito
fatale prima di fare in tempo a convertirsi. E ancora: siamo sicuri che
il gaudente in questione fosse veramente felice e appagato? Che
ne sappiamo noi di quello che è passato nel suo animo? Chissà quanti
“figliuoli prodighi” hanno “assaporato” e tuttora “ruminano” i frutti
amari della loro presunta libertà!
Chi ha conosciuto e goduto dell’amore
straordinario e pacificante di Dio per tanto tempo nella sua vita, non
può che rallegrarsi che un suo fratello vi giunga, pur se in extremis, e
partecipi egli pure della gioia ineffabile che ci viene dall’essere
immensamente amati da Dio Padre.
Il vangelo in poche parole