In questa celebrazione domenicale la liturgia della Parola ci conduce
in una riflessione che sviluppa quella della domenica precedente, il
rapporto con il proprio passato, sia quello comune ma anche quello
personale. Se solitamente si tende a idealizzare il passato, qui Gesù
Cristo (Gv 6,41-51) affonda ancora di più il dito nella piaga: i nostri
padri sono tutti morti, il gran dono del pane del cielo in realtà non ha
giovato loro più di tanto, li ha salvati dalla morte in quel momento ma
solo per spostare un po’ più avanti il limite della vita. Quindi c’è
poco da idealizzare, anche perché, sempre nel passato, i padri non hanno
prodotto molto di cui essere fieri: «quante volte si ribellarono a lui
nel deserto...» (Sal 77,40); l’idea di vedere se stessi come prosecutori
della linea dei padri, l’essere i «bravi ragazzi» di cui i genitori
possono andare fieri, non mette in realtà in sintonia con il disegno di
Dio, non aiuta a capirlo, anzi ancora una volta Cristo è giudicato
alieno, disconosciuto nella sua pretesa di essere portatore di una
parola divina, per essere schiacciato su ciò che è risaputo: non è egli
semplicemente il figlio di Giuseppe? Essere quel figlio, in quella
precisa discendenza è il massimo a cui può aspirare, secondo loro,
niente di più.
Senza voler fare della psicanalisi a buon mercato,
Gesù si apre invece a una relazione diversa, ad un’altra paternità che è
quella di Dio, che non è replicabile, né imitabile ponendosi nel
semplice solco della tradizione: è qualcosa che chiama fuori da sé, che
attira altrove, un Padre da scoprire già presente in sé e
contemporaneamente sconosciuto perché nessuno lo ha mai visto. E allora
come fare ad essere attirati da qualcuno che non si conosce? Sta proprio
qui la tipicità dell’esperienza cristiana, andare incontro a qualcuno
che già parla al nostro cuore in molteplici modi, un padre che sta al di
fuori del sacco amniotico della creazione nel quale siamo immersi ma
che possiamo udire nel profondo, intuendo quasi in trasparenza che c’è
qualcosa, qualcuno oltre il semplice presente.
In fondo è la
stessa dinamica dell’eucarestia, che sotto il segno del pane apre alla
comunione con Dio, all’incontro con la sua presenza. È un dialogo, una
«ruminazione» che si estende per tutta la vita e ci chiede soltanto di
aprirsi a quanto potrà sbocciare. Anche Elia (1Re 19,4-8; 1a lettura) ha
dovuto riconoscere la vacuità del cercare di ripercorrere le vie dei
padri, ancor meno di migliorarle data la sua incapacità, per
intraprendere un cammino diverso verso l’incontro con Dio sul santo
monte che ribalterà nuovamente la sua esistenza e la aprirà a un
rapporto più autentico con Lui.
Il vangelo in poche parole