Siamo al termine
del secondo discorso del vangelo di Matteo (cap.10): quello
“missionario”, materialmente pronunciato solo per i Dodici, ma in realtà
indirizzato a tutta la chiesa, che i Dodici rappresentano, e dunque ad
ogni cristiano.
Gesù prepara a
lungo i suoi alla missione, non solo impartendo insegnamenti teorici, ma
soprattutto chiamandoli a seguirLo, a vivere in comunione con Lui, ad
amarLo.
Qui sono esposte
senza mezzi termini le condizioni della sequela, che rende possibile la
missione; le parole pronunciate da Gesù sono molto dure: “Chi ama il
padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la
figlia più di me non è degno di me” (v.37)
La chiamata di
Gesù è molto esigente: non ammette compromessi o mezze misure. Laddove
si crei una situazione di conflittualità, di inevitabile scelta, la
priorità va data a Colui il cui amore supera indubbiamente quello dei
familiari e che dunque può richiedere di essere corrisposto
adeguatamente.
In concreto, quali
erano nelle prime comunità cristiane le situazioni in cui questo si
verificava? Poteva succedere, ad esempio, che un pagano, dopo che si era
convertito alla fede cristiana, rifiutasse coerentemente di associarsi
al culto degli dei familiari, suscitando critiche e incomprensioni;
oppure che il convertito dal giudaismo dovesse subire le pesanti
discriminazioni (anche sul piano sociale ed economico), che l’esclusione
dalla sinagoga comportava, con conseguenti attriti tra i parenti.
Dunque nelle
parole di Gesù non c’è alcuna svalutazione degli affetti familiari, che
egli stesso ha vissuto in modo esemplare, ma l’indicazione di quelle che
sono le priorità; e di conseguenza anche una netta presa di distanza
dall’ambiente ebraico, in cui i legami e i doveri familiari erano intesi
come il massimo dei comandamenti!
Nel mutato
contesto odierno, l’applicazione delle parole di Gesù può voler dire che
magari un membro della famiglia, in forza della sua fede, non condivide
con gli altri certi modi consumistici o convenzionali di trascorrere il
tempo libero, dissente da talune modalità di gestione dei beni, si fa
guidare da criteri morali che per gli altri non hanno valore; va
incontro insomma a difficoltà di intesa e a conseguenti dissapori e
sofferenze.
Del resto la terza
condizione delineata da Gesù (“chi non prende la sua croce e non mi
segue, non è degno di me” v.38) fa riferimento proprio a situazioni
negative, di sofferenza, di persecuzione, di ostilità che si possono
incontrare nella vita a motivo della propria fede e che non devono
distoglierci dalla sequela, ma rafforzarci nell’amore a Cristo (che per primo
ha affrontato il dolore e la morte), fino al punto, se necessario, di
dare la vita per Lui, come hanno fatto gli innumerevoli martiri nel
corso della storia.
Dare la vita! Chi
non rabbrividisce di fronte ad una simile eventualità? E’ una reazione
perfettamente umana, più che comprensibile; ma anche a questo riguardo
c’è una consolante parola del Signore: “chi avrà perduto la sua vita per
causa mia, la troverà” (v.39b) Egli ci assicura che, come è stato per
Lui, la vita fisica può anche cessare, ma non è cancellata: ha una
continuazione nell’aldilà, in una condizione ormai priva di ogni
elemento negativo.
E come spiegare quello strano versetto 39a: “chi avrà trovato la sua vita, la perderà”?
Il primo
significato può essere, in conseguenza di quanto detto prima, che chi
avrà conservato la sua vita, rinnegando Cristo, anziché perderla per
Lui, avrà in realtà perso la vita vera, quella che non muore: la vita
eterna.
Ma c’è un altro
modo di intendere queste parole. “Trovare la vita” vuol dire concentrare
su se stessi le proprie aspettative, fare di sé il valore supremo,
giudicare valido solo ciò che ci reca vantaggio; chi vive così non solo
non guadagna “la vita eterna”, ma perde anche quella terrena, perché una
vita vissuta in tal modo è vuota, senza senso, rivolta solo a se stessi
e dunque in un certo modo “idolatra”.
Invece, secondo il
Vangelo, la ragione e il senso della vita sono fuori di noi, in Gesù
(che è Via, Verità e Vita, come dice Giovanni) e dunque si “trova”
davvero la propria vita quando la si vive in comunione con Lui e come
Gesù ha vissuto la sua, in totale dedizione di amore.
Scrive Lèon
Dufour: “Io posso stringere e conservare la mia vita come se essa fosse
sufficiente a se stessa, come mia proprietà da difendere ad ogni costo.
Ma in tal modo essa mi sfugge come l’acqua che io volessi trattenere
avidamente tra le mani, mentre non posso dominare la sua sorgente ed
essa scorre incessantemente. Al contrario, se accetto di aprirmi
all’altro e quindi di morire a ciò che mi ripiega su me stesso, ecco che
la mia esistenza, “aperta”, si conserva davvero, come dice Gesù, in una
“vita eterna”.
Il vangelo in poche parole