Un racconto della tradizione ebraica narra che esistono sempre al
mondo 36 Giusti. Nessuno sa chi sono e nemmeno loro sanno d’esserlo ma
quando il male sembra prevalere escono allo scoperto e si prendono i
destini del mondo sulle loro spalle e questo è uno dei motivi perché Dio
non distrugge il mondo. Finito questo periodo hanno la capacità e
l’umiltà di tornare alla vita normale, quella di tutti i giorni, non
raccontando nulla di quanto fatto, per un semplice motivo: ritengono
d’aver fatto solo il proprio dovere di uomini, nulla di più e nulla di
meno.
Ogni volta che sono a Gerusalemme cerco di trovare il tempo per andare e sostare a Yad Vashem,
la collina della memoria eretta agli inizi degli anni Sessanta per
ricordare la Shoa, lo sterminio, sistematico ed organizzato, di sei
milioni di ebrei uccisi dai nazisti e dai loro collaboratori. Un posto
unico al mondo dove la ricerca storica e alcuni luoghi sparsi qua e là
sul territorio museale cercano di aiutare il visitatore ad andare oltre le cifre e, dietro ai numeri dell’arida contabilità di morte, a cercare di cogliere i volti, le storie,
le biografie di uomini e donne, di vecchi e di bambini. Ognuno con il
suo carico di dolore e di speranza. Ed è quello che, con dolore,
restituisce il Memoriale dei Bambini. Un labirinto nel buio,
costruito in una caverna sotterranea al termine della quale cinque
candele, attraverso uno straordinario gioco di specchi, vengono riflesse
un milione e mezzo di volte, numero approssimativo dei bambini e dei
ragazzi ebrei morti nei campi di concentramento e di sterminio. Mentre
si gira attorno a questo firmamento di stelle, seguendo nella penombra
un corrimano, voci registrate fuori campo elencano nelle varie lingue i
nomi delle vittime: «Eugene Sandor, 12 anni, Jugoslavia… Maritza
Mermelstein, 8 anni, Cecoslovacchia…». Le voci impiegano mesi per
chiamare tutti per nome. Perché, come dice il Talmud, «Dio sa contare
solo fino ad uno».
CHI SALVA UNA VITA SALVA IL MONDO INTERO
Attraversando la collina si incontrano migliaia di alberi di carrubo e
sotto ciascuno una targa con un nome. Sono nomi a cui corrispondono
persone che hanno saputo proteggere il valore e la dignità dell’uomo in
un periodo tanto buio della storia europea e mondiale e che hanno dato
lustro alla loro nazione. Sono i Giusti. Come nel
racconto ebraico, semplicemente persone normali che posti di fronte
all’ingiustizia reagirono sapendo opporsi anche a rischio della propria
vita. Sono non ebrei che durante la Shoah salvarono la vita di almeno un
ebreo senza trarne alcun vantaggio personale. La loro esistenza stessa
dimostra che anche nelle situazioni peggiori, in cui l’assassinio era
diventato legge di stato e il genocidio parte di un progetto politico, è
comunque sempre possibile per tutti gli esseri umani fare delle scelte
alternative. Ad oggi sono 24.000, 525 italiani. Tra questi: Perlasca,
Arturo Paoli, piccolo fratello, il pastore valdese Tullio Vinay, il
vescovo di Assisi, mons.Nicolini, Odoardo Focherini e sei cittadini di
Gandino che diedero generoso rifugio a numerosi profughi ebrei nascosti
in paese.
I GIUSTI DELL’ISLAM
Quello che non si sa è che tra le migliaia di nomi, censiti in modo
rigoroso e riconosciuti con una cerimonia pubblica a Yad Vashem,
figurano anche quelli di settanta mussulmani. Persone che – in
nome di valori islamici – si diedero da fare per salvare la vita ad
alcuni ebrei durante la persecuzione nazista. Con questo loro gesto
hanno ricordato che la frase del Talmud «Chi salva una vita salva il
mondo intero» compare anche nel Corano. Oggi, però, sono i più
dimenticati tra i Giusti, perché politicamente scorretti sia per tanti
ebrei sia per tanti arabi. Sono infatti un invito ad andare oltre le generalizzazioni facili nella percezione dell’altro e delle sue aspirazioni.
Alcuni anni fa Giorgio Bernardelli, per conto del PIME, ha pubblicato
un testo dove racconta la storia di loro. Sono 63 gli islamici albanesi
che hanno salvato numerosi ebrei, ospitandoli nelle loro case in
Albania; nel 1943 furono le stesse autorità che non consegnarono le
liste degli ebrei ai nazisti. «La grande maggioranza di coloro che
ospitarono gli ebrei in Albania lo fece con la convinzione, che per un
buon musulmano fosse un dovere assistere e salvare coloro che avevano
cercato rifugio nel loro Paese, perché ingiustamente perseguitati».
Anche in Bosnia ci furono islamici che salvarono la vita di ebrei, come
Zejneba Hardaga insieme al marito Mustafa, a Sarajevo, che abitando
proprio di fronte al quartier generale della Gestapo avvisavano gli
ebrei ogni volta uscivano le camionette per una retata. Gli Hardaga
fecero di più, infatti aprirono anche le porte di casa all’ebreo Yossef
Kabilio. Dicendogli: «Voi siete nostri fratelli. Questa è casa vostra». O
la storia del Console turco a Rodi, Selahattin Ulkumen, che nel 1944
grazie a uno stratagemma riuscì a salvare 42 famiglie ebree. Il Console
pagò a caro prezzo il suo atto di coraggio: i tedeschi, accortisi di
essere stati presi in giro, bombardarono la sua casa, ferendo gravemente
la moglie, la quale in seguito alle ferite morì.
Insomma, mussulmani che in nome della loro fede non si sono voltati
dall’altra parte quando hanno visto il dolore, non sono stati
indifferenti a quanto succedeva a ebrei riconosciuti e presi in carico
nella loro sofferenza. Mussulmani capaci di quella “banalità del bene”
che racconta, in modo esemplare e oltre ogni stereotipo, quanto ogni
fede sappia custodire, nonostante le contraddizioni storiche e le
smentite di tanti, il senso di buono e di vero a custodia dell’umano di
tutti.