Una delle cose meno
intelligenti che un cristiano può fare è accostarsi ad un brano
noto del vangelo pensando di
sapere già.
Il brano della
trasfigurazione nel vangelo di Matteo è un complesso e difficile
gioco di allusioni in filigrana.
L’anonimo monte,
su cui avviene la vicenda narrata, si aggiunge, in Matteo, a quello
delle tentazioni, alla montagna delle beatitudini, al monte degli
ulivi e a quello in Galilea dove si conclude il vangelo. Le ipotesi
geografiche a proposito del monte Tabor o dell’Hermon,
probabilmente, devono essere messe in secondo piano: l’“alto
monte” della trasfigurazione è un riferimento al monte Sinai.
Caro lettore del
vangelo rassegnati: mentre cerchi di decifrare lo scritto di Matteo,
tieni un dito come segno tra le pagine del libro dell’Esodo. Posa
scomoda ma indispensabile.
Gesù sale sul monte
alto con tre (due fratelli più uno) dei dodici, come Mosè salì il
Sinai con Aronne e i suoi due figli, Nadab e suo fratello Avihu,
mentre il resto delle dodici tribù aspettavano sul piano. Il volto
di Gesù risplende, come quello di Mosè dopo la visione di Dio.
Appaiono Mosè ed Elia entrambi legati al monte Sinai. Compare una
nube luminosa, che richiama entrambe le manifestazioni di Dio nel
cammino attraverso il deserto, la colonna di nube di giorno e la
colonna di fuoco di notte.
I riferimenti sono
talmente lampanti per l’ebreo medio che Pietro si lancia in una
proposta di sapore biblico: una riedizione degli accampamenti del
deserto sotto forma di tre tende da beduino.
L’episodio, così
complesso, vuole forse rendere in forma narrativa un’esperienza
difficilmente comunicabile con le parole. Una rivelazione della
gloria di Dio che passa attraverso il confronto di Gesù con le
Scritture, rappresentate da Mosè, che è simbolo della prima parte
della Bibbia ebraica, la Torah, e da Elia, i Profeti.
Anche la voce di Dio
è un raffinato mosaico che spazia su tutta la Bibbia con una
tessera, “questi è il Figlio mio”, tratto dal salmo 2, dalla
terza parte delle Scritture ebraiche, gli Scritti, un’altra, “il
prediletto”, riferita originariamente ad Isacco e facente parte
della Torah, la terza, “nel quale mi sono compiaciuto”, dal
profeta Isaia.
Siamo davanti ad
un’opera d’arte affascinante e bella.
Oggi, però, nei
confronti della bellezza, che esprime la gloria di Dio e porta a
scelte forti di dono della vita, abbiamo un problema: se i nostri
avi, di fronte ad un calice d’oro sapientemente cesellato o ad un
paramento liturgico solennemente ricamato, si riempivano gli occhi e
sospiravano «che bello!», oggi
per
dispetto o vanità,
a seconda delle sensibilità, pensiamo «chissà
quanto costa?».
«Quale
bellezza salverà il mondo?».
Oggi ad
affascinare e salvare da
un’esistenza sprecata tra consumi e affanni
è la bellezza della vita di discepoli che, nonostante i loro limiti
e il loro peccato, non si adeguano alle ingiustizie e
all’individualismo, ma si impegnano per un mondo più giusto e
trasmettono un riflesso del
fascino della vita donata del
Maestro.
Il vangelo in poche parole